Galileo
Galilei:
le principali tappe del processo
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Nel 1611 Galileo venne a Roma in occasione della pronuncia
dei matematici del Collegio Romano interrogati dal Cardinal Bellarmino
sulle scoperte celesti dello scienziato. Bellarmino, professore di Controversie
per undici anni nel Collegio Romano, era stato nominato da Clemente VIII
suo teologo, consultore del S.Uffizio, esaminatore dei vescovi. Poco dopo
Paolo Gualdo, teologo di Padova, scriveva a Galileo pregandolo di essere
prudente nell'affermare che la Terra gira intorno al Sole.
Nel 1615 padre Niccolò Lorini denunciò Galileo al Santo Uffizio per le sue affermazioni
sospette di eresia. Il padre allegava una lettera che Galileo aveva scritto
ad un suo amico, nella quale lo scienziato affermava che ciò che si dice nella
Sacra Scrittura è da intendersi non in senso letterale, perché Dio cercò di
parlare al popolino con favolette ed esempi. Dunque, non vi è contrasto tra
la Sacra Scrittura e le osservazioni scientifiche. Le Sacre Scritture contengono
la verità religiosa, ma questa deve essere dedotta attraverso una lettura approfondita
che vada oltre il significato letterale delle parole; non hanno nessuna pretesa
di scientificità. L'intenzione dello Spirito Santo è quella di "Insegnarci
come si vadia al cielo, e non come vadia il cielo". Galileo può veramente
essere considerato il padre della scienza moderna: teorizzava con rigore il
metodo sperimentale sostenendo l’indipendenza della fisica dalla filosofia e
dalla teologia.
Le leggi della natura umana vanno dedotte in base alle "sensate esperienze"
e alle "dimostrazioni necessarie". Galileo scrive: "[...]pare
che quello degli effetti naturali che o la sensata esperienza ci pone dinanzi
a gli occhi o le necessarie dimostrazioni ci concludono, non debba in conto
alcuno esser revocato in dubbio, non che condennato, per luoghi della Scrittura
che avessero nelle parole diverso sembiante;[...]".
Il 23 Febbraio 1616, nella Sentenza del Santo Uffizio si leggeva: "L'affermazione
che il Sole è al centro del mondo è stolta, assurda ed eretica, perché contraddice
la parola della sacra Scrittura e dei teologi. L'affermazione che la Terra si
muove riceve la stessa censura". A Galileo fu imposto di rinunciare
alle sue teorie, pena la perdita del diritto di insegnare e la carcerazione.
Correva voce a Roma, Pisa e Venezia che egli fosse stato costretto ad abiurare.
Venne richiamato a Firenze per ordine del Granduca mentre riceveva un attestato
dal Cardinal Bellarmino dal quale risultava che non era in corso in alcuna sentenza
del Sant' Uffizio: “il suddetto Sig. Galileo non ha abiurato in mano nostra
né di altri qua in Roma, né meno in altro luogo che noi sappiamo, alcuna sua
opinione o dottrina, né manco ha ricevuto penitenzie salutari né d’altra sorte,
ma solo gl’è stata denuntiata la dichiarazione fatta da N. Sig. […] nella quale
si contiene che la dottrina attribuita al Copernico sia contraria alle Sacre
Scritture, et però non si possa difendere né tenere”.
Seguono anni di lavoro e studio: l’8 Settembre 1623 si annuncia la pubblicazione
del Saggiatore, un testo fondamentale in cui, con il pretesto di controbattere
ad argomentazioni sulla natura delle comete, egli esponeva una vera e propria
“teoria della conoscenza”.
Nel 1630 Galileo venne ricevuto dal papa, al quale
chiese l'imprimatur (cioè il permesso) per pubblicare il suo nuovo libro,
Dialogo sui massimi sistemi, nel quale forniva la descrizione del Sistema
Solare con il Sole al centro e i pianeti (fra i quali la Terra) che gli girano
intorno. Il pontefice in quegli anni era Urbano VIII considerato un ingegno
acuto, amante della scienza e attento alle esigenze della cultura del suo tempo
e la situazione, a Roma, sembrava favorevole allo scienziato, che si sentì abbastanza
al sicuro per tornare a parlare della teoria copernicana. L’opera è scritta
in forma di dialogo intorno alla natura; a discutere sono tre studiosi: Simplicio
(qualcuno, anche tra i contemporanei, vi vide una irriverente rappresentazione
del papa) che sostiene le ipotesi dei filosofi aristotelici, Sagredo che è
un giovane brillante disposto soprattutto ad ascoltare e Salviati, la vera
voce di Galileo. I temi trattati sono svariati: per quanto riguarda l’astronomia
vi è difesa la teoria copernicana. Per prudenza lo scienziato corredò comunque
l’opera di un’introduzione “al discreto lettore” nella quale precisava
che le posizioni copernicane sostenute da Salviati non erano altro che “pura
ipotesi matematica” senza alcuna pretesa di verità. Ma questo espediente
non fu sufficiente e, nonostante in un primo tempo il Dialogo avesse
ricevuto l’imprimatur (1632), la reazione ecclesiastica si fece sentire duramente
poco dopo. Fu il pontefice in persona, da molti accusato di essere di vedute
troppo liberali, a prendere posizione.
Nell’ottobre del 1632 Galileo fu invitato a Roma per
sottoporsi al giudizio del Santo Uffizio e costretto ad ammettere che la lettura
del testo avrebbe potuto trarre in inganno i lettori, convincendoli della verità
delle ipotesi copernicane. La difesa, per provare che si era trattato di errori
fatti in buona fede, a causa anche dell’età ormai avanzata dello scienziato,
insistette sulla disponibilità a correggere il testo nei punti indicati dagli
inquisitori. Ma il 12 aprile 1633 Galileo fu nuovamente convocato e costretto
a confessare la propria fede nella teoria copernicana sotto minaccia di tortura.
La sentenza con cui fu comunicato all’accusato di essere “vehementemente
sospetto d’heresia” e riconosciuto colpevole è datata 22 giugno 1633. Il
Dialogo fu proibito e lo scienziato fu costretto a pronunciare la famosa
abiura, di cui ecco la parte terminale: “Con cuor sincero e fede non finta
abiuro, maledico e detesto li suddetti errori et heresie e generalmente ogni
et qualunque altro errore, heresia e setta contraria alla Santa Chiesa; e giuro
che per l’avvenire non dirò mai più né asserirò, in voce o in scritto, cose
per le quali si possa haver di me simil sospitione; ma se conoscerò alcun heretico
o che sia sospetto d’heresia, lo denontiarò a questo S. Offizio ovvero all’Inquisitore
o Ordinario del luogo dove mi trovarò. Giuro anco e prometto di adempire et
osservare intieremente tutte le penitenze che mi sono state o mi saranno da
questo S. Offizio imposte; e contravvenendo ad alcuna delle mie promesse e giuramenti,
che Dio non voglia, mi sottometto a tutte le pene e castighi che sono da’ sacri
canoni et altre costitutioni generali e particolari contro simili delinquenti
imposte e promulgate. Così Dio m’aiuti e questi suoi santi Vangeli, che tocco
con le proprie mani.”. Condannato al carcere a vita nel palazzo dei Granduchi
di Toscana alla Trinità dei Monti, supplicò il pontefice di volergli commutare
il luogo assegnatogli per carcere in Roma con altro simile a Firenze e il papa
accondiscese: venne dapprima trasferito a Siena, sotto la custodia dell’arcivescovo
Piccolomini e pochi mesi più tardi nella sua villa di Arcetri, dove morì, ormai
cieco, l’8 gennaio 1642.
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